di Joan Parisi Wilcox; traduzione Gianmichele Ferrero
Post corrente: 19 agosto 2025
Il quechua è una lingua orale; non ne esisteva una forma scritta fino a dopo la conquista spagnola. È una lingua ricca di espressività, soprattutto per trasmettere profondità emotive, complessità e sottigliezze. Rimay è il termine principale per “discorso”. Nelle sue varie forme significa linguaggio, voce, parola, discorso, conversazione, parlare, comunicare, esprimere e spiegare.
All’interno della tradizione mistica, il rimay assume significati aggiuntivi. È suono sacro e suono come potere. È in relazione yanantin con yachay (conoscenza). Sono poteri diversi ma complementari che insieme si riferiscono alla nostra capacità di condividere la conoscenza e la saggezza acquisite attraverso l’esperienza di vita personale. Non sorprende che il rimay, come comunicazione, sia associato al kunka ñawi, l’occhio mistico della gola. Grazie al rimay, possiamo caricare le nostre vocalizzazioni – parole, canti, preghiere – con il nostro potere personale per elevarle oltre il mondano, verso lo spirituale. Nel contesto del rimay, spirituale non significa solo santo, sacro o riverente, ma anche pieno di forza vitale. (I significati principali della parola “spirituale” sono respiro e vita). Questa non è una forza vitale astratta, ma la nostra forza vitale personale. In parole più semplici, il rimay rivela il nostro kanay: il nostro essere. Con precisione, chiarezza e integrità, diamo voce a chi siamo come esseri umani unici che vivono vite umane uniche.
Rimay è un potere del kay pacha: del mondo umano. Questo scambio di battute tratto dal film dark-comedy degli anni ’70 Harold e Maude potrebbe riguardare il rimay.
Harold: “Preghi?”.
Maude: “Preghi? No. Io comunico”.
Harold: “Con Dio?”.
Maude: “Con la vita”.
Utilizzando il potere del rimay, possiamo esprimere qualsiasi cosa di noi stessi e delle nostre vite: la nostra gioia e la nostra disperazione, il nostro amore e la nostra paura, la nostra compassione e la nostra indifferenza … Farlo significa che in quel momento, attraverso i nostri sentimenti, abbiamo toccato una verità su noi stessi e abbiamo avuto il coraggio di esprimerla. In questo modo il rimay riguarda più il sé che gli altri. Se siamo proprietari del potere del rimay, intendiamo ciò che diciamo e diciamo ciò che intendiamo. La nostra parola è affidabile, tanto che manteniamo i nostri impegni e le nostre promesse. Ci assumiamo la responsabilità non solo del contenuto del nostro discorso, ma anche del suo volume e del suo tono, di come diamo enfasi, e dell’intento e dell’effetto espliciti e impliciti. Abbiamo tutti sentito cosa significa la mancanza di rimay: la denigrazione cortese, il complimento sarcastico, la rassicurazione disonesta, il giudizio ipocrita.
Rimay, in quanto potere, ci chiede di essere comunicatori consapevoli. Autoconsapevolezza e autocontrollo ne sono il fulcro, perché a volte il nostro potere risiede in ciò che ci asteniamo dal dire. L’attore e scrittore Craig Ferguson offre un saggio consiglio quando afferma: “Chiediti queste tre cose prima di dire qualsiasi cosa. 1) C’è bisogno che questo venga detto? 2) C’è bisogno che questo venga detto da me? 3) C’è bisogno che questo venga detto da me ora?”.
Nella sua vibrazione più elevata, il rimay come comunicazione è curativo. Victor Zea, fotografo e artista hip-hop peruviano che cerca di preservare la lingua quechua attraverso la sua musica, usa il termine hanpiq rimay, ovvero la parola che guarisce. (Hanpiq è più comunemente sillabato hampeq, che significa guaritore). Le nostre parole, naturalmente, possono sollevare gli altri. Possono essere lenitive, rigeneranti, ispiratrici. Ma come in tutto il nostro lavoro, prima di tutto ci prendiamo cura di noi stessi. Quando raccogliamo la volontà di dire la nostra verità con onestà e chiarezza, portiamo guarigione a quelle parti di noi negate o ferite che in precedenza avevamo tenuto nascoste o protette. La nostra guarigione potrebbe essere semplice (e potente) come rivendicare la nostra integrità attorno alle parole “sì” e “no”. Potrebbe essere imparare a dire “sì” a noi stessi quando per la maggior parte della nostra vita la nostra mancanza di autostima ci ha portato a dire “no”. Oppure imparare a dire “no” agli altri quando prima avevamo detto “sì” a malincuore per senso del dovere o per paura del rifiuto.
I paqo ci dicono che, sebbene il nostro utilizzo delle pratiche andine per lo sviluppo personale sia un lavoro serio, non è solo questo. È anche puklay: intrapreso con un senso di giocosità. Questo vale anche per il rimay. Don Juan Núñez del Prado ci ricorda che “il nostro lavoro è un gioco cosmico. È un mix di munay e rimay. Munay come amore e volontà, e rimay come capacità di esprimere se stessi”. Ma, dice, “il rimay è molto più di questo: è la capacità di manifestarsi. Di esprimersi in tutte le forme, incluso esprimere e vivere il proprio destino e invitare gli altri a fare lo stesso. Tutto questo ti porta al kanay, il potere di essere te stesso. Se scopri il kanay, raggiungi l’atiy, il potere di cambiare la realtà intorno a te. Dopo esserti manifestato, puoi guidare il kawsay per influenzare [la realtà], ma non controllarla; puoi [spingere] l’energia a seguire flussi più armoniosi in direzioni più armoniose per te. E poi [puoi] giocare nel mondo dell’energia vivente”.
Sebbene il rimay si riferisca principalmente alla comunicazione, nella tradizione mistica è il potere personale di esprimere qualsiasi nostra capacità. Il processo evolutivo spiegato da don Juan inizia con il munay, ovvero con il coltivarlo per noi stessi. Impariamo ad amarci così come siamo. Riconosciamo il nostro valore intrinseco e diventiamo padroni della nostra autostima. Esprimiamo chi siamo senza bisogno di assumere false sembianze: senza illusioni, scuse, giustificazioni o spiegazioni. Non svalutiamo né esageriamo i nostri punti di forza e i nostri doni. Riconosciamo le nostre debolezze e mancanze, ma non ci fissiamo su di esse. Quando ci accettiamo così come siamo, allora possiamo relazionarci con gli altri così come sono. Il nostro stato interiore condiziona la nostra realtà esteriore.
Padroneggiare questa prima armonizzazione di munay e rimay ci conduce a kanay: Io sono. Mosè chiese a Dio: “Chi sei?”. Dio rispose: “Io sono colui che sono”. Kanay conferisce questo livello di chiarezza. Quando sappiamo “Questo è ciò che sono” e non abbiamo paura di esprimerci, acquisiamo il potere di vivere secondo la nostra vera natura. Il nostro Seme Inca, il deposito energetico del nostro pieno potenziale, fiorisce. Sebbene non possiamo fare a meno di essere plasmati da aspetti della vita che sono al di fuori del nostro controllo, attraverso kanay diventiamo anche plasmatori della vita. Gli andini aspirano a raggiungere “sumaq kawsay”: una vita bella, una vita felice. Sono d’accordo con Lucille Ball, che ha detto: “È un inizio fantastico, essere in grado di riconoscere ciò che ti rende felice”.
Una volta che espandiamo la nostra comprensione di noi stessi includendo kanay, possiamo iniziare a usare un altro dei nostri poteri primari: atiy. Atiy è la nostra capacità di agire nel mondo. Attraverso kanay sappiamo chi siamo e cosa vogliamo dalla vita. Attraverso atiy iniziamo a manifestare quella vita. Il passo da atiy allo stadio finale dello sviluppo è breve: khuyay. Khuyay è la passione, la gioia di essere vivi come te stesso. E così chiudiamo il cerchio, tornando a rimay: l’espressione esuberante di noi stessi nella nostra versione unica di questo gioco cosmico chiamato vita.
Così tanto parlare e così poco dire … Così tante parole pronunciate e così poca comunicazione … Leggi il post di Joan Parisi Wilcox nel blog Q’enti Wasi sul sito web Liberiviandanti di questo mese. Riguarda il rimay, la parola quechua che significa discorso, parole, linguaggio, comunicazione. Eppure è molto più di questo. Joan approfondisce il significato di alcune attitudini tra loro conseguenti: rimay o la capacità di esprimere sè stessi, di manifestarsi; il kanay o il potere di essere sé stessi; l’aty o facoltà di agire nel mondo; il khuyay o la passione, la gioia di essere vivi.
(Immagine Freepik)