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  • Oltre lo Specchio: Percepire Spiriti e Esseri della Natura

    Oltre lo Specchio: Percepire Spiriti e Esseri della Natura

    di Joan Parisi Wilcox; traduzione Gianmichele Ferrero – Post corrente: 23 novembre 2025

    “. . . con un occhio reso silenzioso dal potere
    Di armonia, e del profondo potere della gioia,
    Vediamo dentro la vita delle cose.”

    “Linee composte a pochi chilometri sopra l’Abbazia di Tintern”
    William Wordsworth

    Secondo me, la maggior parte delle persone che praticano lo sciamanesimo o il misticismo non avrebbe obiezioni se aggiungessi un altro verso a questa strofa della poesia di Wordsworth: “E vedono dentro di noi.” Gli andini ci dicono che tutto è un “essere”, quindi se vediamo nella vita di tutte le cose di questo mondo, vedono dentro anche noi. Nella tradizione mistica andina, questa reciprocità è chiamata ayni.

    Ayni non è né transazionale né casuale. Si tratta di vedere nel cuore di un altro essere, che sia un essere umano, un albero o una montagna. Vediamo attraverso la nostra visione mistica e ci connettiamo attraverso i nostri sentimenti—alla maniera andina tramite il munay, o la cura consapevole o anche l’amore. La descrizione di Wordsworth di un “occhio placato dal potere dell’armonia e dal profondo potere della gioia” è una bellissima rappresentazione dell’energia dell’ayni. Parla di una connessione percettiva che è consapevole, umile, rispettosa e curiosa.

    Continuando con i miei post sul blog sulle abilità mistiche sia all’interno che al di fuori della cosmovisione andina, sviluppare questa qualità di percezione nella “vita delle cose” è di fondamentale importanza. Uno degli obiettivi principali di molti tipi di pratiche mistiche è sviluppare una percezione che possa guardare alla vita delle cose, raggiungendo una connessione diretta e non mediata con la realtà fisica e non fisica di questo mondo. Questo tipo di consapevolezza, questo contatto, è una realtà verificabile per i praticanti mistici. Ma è davvero possibile una consapevolezza non mediata?

    Credo di sì, ma solo raramente. Per la maggior parte di noi, la maggior parte delle volte, la risposta è no. Questo è il grande paradosso della percezione mistica: il nostro “vedere nella vita delle cose” è, in modo schiacciante, un atto di vederci riflessi nelle cose che osserviamo. Il nostro cervello umano è programmato con un’abitudine percettiva di antropomorfizare—proiettare abilità, comportamenti, emozioni e qualità umane su esseri non umani. Per molti scienziati, specialmente i biologi evoluzionisti, siamo strutturalmente incapaci di fare altrimenti. Come scrive Reza Aslan in Dio: Una storia umana: “Noi siamo…” adattati evolutivamente per impiantare le nostre credenze e desideri, i nostri stati mentali e psicologici, le nostre anime, in altri esseri, umani o meno.” (Corsivo nell’originale.) Siamo i mediatori supremi. La nostra esperienza personale è la lente attraverso cui applichiamo significato all’intero universo, sfumando il confine tra pura osservazione e proiezione di sé.

    Approfondiamo alcune delle profonde implicazioni dell’antropomorfizzazione: proiettare i tratti umani sugli esseri spirituali e della natura. La sfida filosofica centrale sono i limiti della conoscenza. Dobbiamo affrontare il fatto che possiamo conoscere solo la nostra percezione del mondo, non il mondo stesso. Sebbene il misticismo suggerisca che tutto sia connesso—ad esempio, che conoscere un albero sia un modo profondo di conoscerci noi stessi—i momenti di tale “unità” sono eccezionali. Più comunemente, i nostri legami con esseri non umani sono scambi che rivelano più su noi stessi che su di loro. Nonostante l’addestramento mistico possa aumentare la nostra capacità di percepire e apprendere esseri non umani, sto suggerendo che la maggior parte delle volte non possiamo conoscerne la vera natura al di là della nostra proiezione.

    In quanto creature che danno significato, la nostra prospettiva umana è il punto di partenza e la fine assoluta di ogni senso. Anche nei momenti di percepita reciprocità con uno spirito o un essere della natura—quando li sentiamo parlare o percepiamo una connessione emotiva condivisa—è impossibile sapere se il dialogo o il sentimento provenga dall’entità non umana o se sia per lo più o interamente auto-costruito. Il semplice atto di sentire un albero “parlare” è, per definizione, un antropomorfismo.

    Data questa limitazione, forse il termine che meglio definisce il misticismo è “preternaturale”. Nelle sue definizioni più teologiche e filosofiche, si riferisce alla nostra apprensione degli esseri spirituali o della natura come inspiegabili e non verificabili indipendentemente dalle nostre stesse menti. Detto ciò, le esperienze mistiche non sono intellettuali; sono fenomenologici. La loro realtà è innegabile per chi vive l’esperienza, ma il loro significato e valore sono intrinsecamente personali, determinati dal nostro stato di coscienza, sentimenti e credenze.

    Questa dipendenza dal sé non diminuisce il valore degli incontri mistici, ma richiede che li affrontiamo con il qaway. Questa capacità mistica andina ci aiuta a vedere la realtà per quello che “davvero” è, costringendoci a riconoscere la dinamica energetica dominante: la tendenza intrinseca a sovrapporre la nostra umanità a tutto. La poesia cattura al meglio l’essenza di questo punto. ” Tè al Palazzo di Hoon” di Wallace Stevens esplora il confine fluido tra interiore ed esteriore, mostrando come la realizzazione di sé derivi dal nostro potere cosciente e creativo di plasmarci plasmando il mondo: “Ero il mondo in cui camminavo, e ciò che vedevo / O sentii o sentivo veniva solo da me stesso; / E lì mi sono ritrovato più vero e più strano.”

    Date le limitazioni intrinseche della prospettiva umana, come possiamo avvicinarci alla comunione mistica con spirito e natura con meno proiezione di sé? Come potremmo trovare maggiore conforto con il fatto che, sebbene queste entità possano possedere una certa misura di coscienza, potrebbero essere consapevoli o addirittura molto interessate agli esseri umani? Sebbene il misticismo sostenga che noi e loro siamo espressioni di una rete più ampia e interconnessa di essere, o probabilmente di una Coscienza Unica indefinibile, la domanda rimane: come rispettiamo che la loro esistenza cosciente possa essere profondamente diversa dalla nostra? Ecco tre suggerimenti per entrare gradualmente in questo quadro di riferimento.

    Agende di pubblicazione
    Osserva, connettiti ed essere in unione con esseri non umani liberi dall’aspettativa che possano, vogliano o vogliano agire per nostro conto. Quando cerchiamo la connessione principalmente per soddisfare bisogni o desideri personali (ad esempio, intuizione, risoluzione di problemi, apprendimento)—o anche quando ci avviciniamo a creare una connessione per avere un'”esperienza”—stiamo centrando l’interazione su noi stessi. Siamo più transazionali che veramente reciproci. Rischiamo di diventare dominanti e persino superiori alla natura o allo spirito. Non conosciamo la Mente di Dio, ma è probabile che la natura e altri tipi di spiriti non esistano per darci piacere o per servire i nostri bisogni. Siamo certamente liberi di chiedere consiglio o consiglio, e la nostra esperienza ci dice che ci assistono. Ma dobbiamo rimanere consapevoli che l’albero, la montagna o un’altra entità non umana non ha alcun obbligo di assistere, potrebbe non essere in grado di assistere e potrebbe persino essere del tutto indifferente nei nostri confronti. È molto più probabile che ciò che “riceviamo” dalla nostra connessione con uno spirito o un essere della natura sia un’opportunità per ascoltare la voce del nostro inconscio—della nostra conoscenza interiore, e persino della saggezza interiore. Quantomeno, dobbiamo rimanere consapevoli che la natura o lo spirito potrebbe funzionare più come uno specchio che come un risolutore o insegnante simile a un essere umano.

    Permettere alla natura di rivelarsi
    Dal punto di vista mistico, tutto è un essere e possiede una certa misura di coscienza, anche se non necessariamente una che assomigli alla coscienza umana. La natura può essere un insegnante (una metafora potente), e se ci approcciamo a una pianta, per esempio, con apertura a ricevere la sua vera natura, a volte le informazioni possono essere scambiate in modi attualmente inconoscibili. Potremmo trarre l’ispirazione che questa pianta, quando preparata come tè, aiuti la digestione umana o allevia il dolore. La chiave è il cambiamento di approccio: non ci approcci con l’aspettativa che riveli i suoi “segreti”. Invece, ci affrontiamo con rispetto e umiltà, cercando semplicemente di conoscerla per sé stessa. A volte, da questa pura consapevolezza, emergono spontaneamente intuizioni su come la pianta possa soddisfare i nostri bisogni. La differenza attitudinale cruciale è che non si tratta di una “domanda”, ma di una connessione riverente da cui a volte può emergere un “ricevente”.

    Onora con altruismo
    È una pratica spirituale o sacra comune fare offerte—come salvia o tabacco, o nella tradizione andina un despacho—alla Natura o a specifici esseri della natura o spirituali. Di solito, lo facciamo come atto di ayni (reciprocità): un’offerta precede una richiesta o è un’espressione di gratitudine per l’adempimento di una richiesta. Sebbene l’atto di fare un’offerta incarni il nostro rispetto, dobbiamo ancora una volta guardarci per permettere che un sentimento genuino diventi meramente performativo. Troppo spesso, un rituale si concentra su chi dice “Grazie” piuttosto che su chi merita il ringraziamento. La dinamica energetica della proiezione è sottile: nell’atto di onorare, possiamo facilmente connetterci più con noi stessi che con l’essere. Sto facendo questa offerta. Sto ringraziando. L’onore genuino è una forma altruista di connessione; È un modo di connettersi che ci spinge oltre l’ego.

    Alberi, montagne, fiumi—esistevano milioni di anni prima degli esseri umani. Anche se misticamente riconosciamo che hanno un proprio tipo di coscienza e intelligenza, la loro forma di “essere” è fondamentalmente inconoscibile per noi. In quanto entità antiche, la loro durata di vita si estende su scale temporali che non possiamo immaginare. La loro forma di coscienza potrebbe essersi evoluta in modi radicalmente diversi dalla nostra e potrebbe assumere forme stranamente distinte dal pensiero umano. Molto semplicemente, è altamente improbabile che siano simili agli umani.

    Forse la ragione di esistere di un fiume è semplicemente scorrere. Quella di una stella è brillare. Quella di una montagna è per sorgere. Questo basta; Non richiedono più scopo.
    Conoscono la loro vera natura. Se desideriamo una connessione mistica genuina, queste ammissioni sono necessarie. Liberare le nostre proiezioni umane ci libera per essere noi stessi autentici e permette loro di essere autenticamente loro. Questo rispetto per la loro profonda autonomia è il punto di partenza minimo per stabilire una connessione ayni con spiriti e esseri della natura.

  • Etna 2026

    Etna 2026

    17 e 18 settembre 2026
    Despacho e Suyu Karpay

    Dettagli del pellegrinaggio con un’importanza che travalica i confini nazionali ed europei. Mamma Etna con i suoi 3.350 m s.l.m. è il secondo più grande vulcano attivo del mondo.
    Il viaggio è parte del progetto paziente e impegnativo di tessitura e karpay dei grandi e piccoli Apu e Ñusta del territorio italiano che da qualche anno conduciamo.
    Collegheremo le 7 più rilevanti espressioni della Pachamama: Monte Bianco, Monte Rosa, Gran Paradiso, Cervino-Matterhorn, Lago di Bolsena, Gran Sasso e Etna.
    È un evento aperto a tutti i praticanti della Tradizione.
    Il progetto è organizzato da Gianmichele Ferrero con la collaborazione di Paola Ferraro, Agata Lanteri, Enrica Costanzo, Achille Salerno.
    In allegato trovate il volantino con le informazioni pertinenti.

  • Programma LIV 2026

    Programma LIV 2026

    Vi annuncio il calendario delle iniziative per il 2026 che trovate in allegato.
    Oltre agli appuntamenti, troverete anche qualche mia riflessione.
    Buona lettura.
    Gianmichele

  • Un mistico accoglie il paradosso

    Un mistico accoglie il paradosso

    di Joan Parisi Wilcox; traduzione Gianmichele Ferrero – Post corrente: 20 ottobre 2025

    Era la fine degli anni Novanta e una festa era in pieno svolgimento: musica a tutto volume, drink a fiumi, conversazioni e risate che riempivano le sale. Ma io ero in un angolo tranquillo, immerso in una conversazione con Gloria Karpinski, un’insegnante di sviluppo umano di fama mondiale. Non ricordo come arrivammo all’argomento, ma stavamo discutendo di cosa significhi essere “spiritualmente maturi”. Alla fine, concordammo su una definizione concisa: la maturità spirituale è la capacità di “sedersi comodamente in grembo al paradosso”. Una volta risolta quella questione importante, tornammo alla festa e a tutta la sua allegria. Non ho mai dimenticato quella definizione, ed è il modo perfetto per introdurre la prossima “sensibilità mistica” sulla mia lista: coltivare il comfort con il paradosso.

    Traendo spunto da diverse definizioni, il paradosso è un’affermazione che in superficie sembra contraddittoria o assurda, ma che, a una riflessione più approfondita, rivela una verità profonda. Spesso ci richiede di conciliare due idee opposte riconsiderando i nostri presupposti iniziali.

    Alcuni paradossi non ci causano alcuna tensione interiore; semplicemente “li capiamo”. Abbiamo tutti sentito e usato questo tipo di affermazioni:
    • Meno è meglio.
    • L’unica costante è il cambiamento.
    • Più sai, meno capisci.
    • L’unica certezza è che nulla è certo.

    Tuttavia, molti paradossi spirituali sono progettati per creare dissonanza interiore. Ci fanno fermare e ci chiedono di essere portati in contemplazione. Sfidano il nostro pensiero convenzionale e ci spingono a una comprensione più profonda.
    • Sii nel mondo ma non del mondo.
    • Devi perderti per trovare veramente te stesso.
    • Se incontri il Buddha per strada, uccidilo.
    • Il nulla è tutto, il tutto è nulla.

    Una cosa è certa riguardo al paradosso: non è qualcosa da risolvere. Anzi, più ci sforziamo di risolvere l’apparente contraddizione, più ci allontaniamo dalla comprensione. La determinazione non è la nostra via d’accesso. Una classica storia buddista illustra questo punto. Uno studente chiede a un insegnante quanto tempo ci vorrà per padroneggiare i suoi insegnamenti. L’insegnante risponde: “Dieci anni”. “Ma”, promette lo studente, “sarò l’allievo più diligente e devoto che tu abbia mai avuto”. “In tal caso”, dice l’insegnante, “vent’anni”.

    Mentre la logica spesso cerca risposte chiare e definitive, il paradosso spirituale offre una via diversa. È un potente strumento progettato per allentare il nostro rigido attaccamento alla logica e coltivare il rispetto per l’incertezza. Spostandoci oltre il pensiero o/o verso una prospettiva più integrale, sia/e, il paradosso sfida il bisogno dell’ego di categorizzazioni rigide e di significati semplicistici o superficiali. Incoraggia una consapevolezza più riflessiva, contemplativa ed espansiva. In definitiva, il paradosso ci aiuta a coltivare l’umiltà e la grazia necessarie per onorare i misteri della vita, promuovendo una maggiore tolleranza per l’astrazione e una fiducia più profonda nell’ispirazione.

    Le parole – che nominano, definiscono, caratterizzano – sono totalmente inadeguate alle ricerche mistiche. Tra i più grandi doni del paradosso c’è quello di insegnarci che la “conoscenza” non è intellettuale, ma fenomenologica. Dobbiamo percecipre la “verità” e l’intuizione. In effetti, la percezione mistica è più una “nube di inconsapevolezza”, come ci dice il titolo di un classico testo mistico cristiano. Al di là di ogni pensiero, immagine e concetto intellettuale c’è lo spazio liminale in cui l’anima incontra e sperimenta il divino.

    La maggior parte dei lettori di questo blog pratica le arti sacre andine. In questa tradizione incontriamo il paradosso, sebbene si presenti per lo più in modo sottile. Pratiche come saminchakuy e saiwachakuy, insieme alla riflessione e alla contemplazione, ci aiutano a percepire le verità spirituali più profonde che le parole e la logica non possono esprimere. Sono metodi che ci conducono verso l’interno, verso luoghi silenziosi e luminosi dove ascoltiamo anziché parlare, sentiamo anziché pensare e assorbiamo anziché imparare. Il paradosso di queste pratiche è che sono sia passive che attive, e né passive né attive. Incastonate nella quiete ci sono energie creative, ciò che nella tradizione andina chiamiamo ayni, o scambi reciproci. Come spiega il mistico cristiano Thomas Merton, “Una delle strane leggi della vita contemplativa è che in essa non ci si siede a risolvere i problemi: li si sopporta finché in qualche modo non si risolvono da soli. O finché la vita non li risolve per te”.

    La collaborazione con la “vita” è al centro della tradizione andina e l’ayni è uno dei suoi principi fondamentali. Questo principio andino di reciprocità e mutualismo è un concetto fondamentale per gli Andini in molteplici ambiti della vita: personale, comunitario o sociale, e spirituale. A livello personale e sociale, viene comunemente spiegato come “oggi per te, domani per me”. Gli indigeni andini vivono una vita agricola, e questo tipo di ayni significa che quando hai bisogno di aiuto nei tuoi campi o con le tue mandrie, io sarò lì per te, e viceversa. Tuttavia, anche a questo livello personale, l’ayni non è mai uno scambio puramente transazionale. Implica sempre l’aumento del benessere di entrambe le parti. L’ayni insegna che il nostro benessere è intrinsecamente legato al benessere degli altri, incluso quello del mondo naturale. È una visione del mondo profondamente radicata, secondo cui tutto è interconnesso e che la reciprocità rafforza entrambe le parti.

    A livello energetico, la paradossalità di ayni risiede nella sua duplice natura: è un’azione pratica e fisica nella vita, le cui radici affondano in una profonda spiritualità immateriale. Questo paradosso include la comprensione che ayni è prima di tutto uno stato di coscienza; tuttavia, senza azione non c’è ayni. Ayni implica volontà, scelta, consapevolezza e intenzione, ma la sua dinamica profonda è il fluire dell’essenza di ciascuno all’interno di campi energetici più ampi, da quello della sfera sociale umana a quello dell’allineamento con il cosmo. Praticare ayni rivela che siamo parte integrante dell’universo vivente, non separati da esso. In questo modo, ayni è un allineamento consapevole con la nostra vera natura.

    Nella cosmovisione andina, lo spirituale e il materiale sono visti come due aspetti di un’unica realtà. Il termine quechua per questa polarità complementare è yanantin. Il concetto di yanantin nella filosofia andina presenta un paradosso potente e spesso frainteso. I dualismi occidentali (come bene contro male, giusto contro sbagliato, io contro te) tendono a enfatizzare una lotta per il predominio dell’uno sull’altro. Lo yanantin vede forze apparentemente opposte (come maschile/femminile, luce/oscurità, interno/esterno, io/tu) come parti essenziali e interdipendenti di un tutto unificato. Lo yanantin non riguarda il raggiungimento dell’equilibrio, ma dell’armonia. In una data situazione, un aspetto dello yanantin può essere più prominente, attivo o dominante, ma non vi è comunque alcuna asimmetria fondamentale. Le dinamiche energetiche mutevoli della coppia yanantin creano le condizioni per la crescita, il cambiamento, la varietà e la novità. L’essenza dello yanantin non risiede nell’attenzione alla sua dualità, o agli aspetti diversi ma complementari dei due elementi individuali, ma nella loro unità, nella totalità che nasce dalla loro essenziale relazione di complementarietà. In sostanza, lo yanantin è il paradosso di essere lo specchio di se stesso: di percepire simultaneamente la Molteplicità e l’Unità, e di comprendere che non si escludono a vicenda. (I paqo andini non si avventurerebbero nel panorama buddista della molteplicità come illusione, sebbene riconoscerebbero che la “separatezza” è un fraintendimento della natura fondamentale della realtà).

    Qualunque sia il paradosso, come strumento spirituale è utile in molti modi. Sentirsi a proprio agio con il paradosso, ed essere quindi disposti ad abbracciarlo, può accrescere la creatività. Ci spinge a pensare, sentire e persino essere in modi che esulano dalla norma consensuale: ci addentriamo nella terra dell’intuizione creativa, dell’innovazione e della novità. Se trascorriamo del tempo lì, ci rendiamo conto che si tratta di un ambiente di delizia, rivelazione e persino gioia. Il paradosso ci invita a essere curiosi e creativamente adattabili: quando ci troviamo faccia a faccia con l’irrazionale e persino l’illogico, facciamo rapidamente amicizia con l’incertezza, la fluidità e le sfumature. Insieme, ci guidano verso modi innovativi di conoscere, comprendere, riflettere, agire, risolvere problemi, sentire, esprimere e scegliere. Mentre cerchiamo di armonizzare quella che sembra la tensione degli opposti, coltiviamo la capacità di riformulare e riconcettualizzare: non solo sulla natura del cosmo e del mondo – e sul nostro rapporto con essi – ma anche sulla nostra stessa natura umana. Dobbiamo affrontare le nostre incoerenze; e quando lo facciamo, accettiamo meglio gli altri e persino la vita in questo mondo così umano. Forse l’aspetto più significativo dell’accogliere il paradosso è che ci apriamo a una sorta di riverenza per la polarità in cui siamo immersi: la nostra essenza fisica e metafisica simultanea; la sorprendente complessità e la sorprendente varietà del mondo e di noi stessi, e la loro intrinseca eleganza; l’ostinata “essenza” della forma materiale mondana e il palinsesto del sacro che informa ogni cosa. Come afferma chiaramente il filosofo buddista Dōgen Zenji, questo paradosso: “Nel mondano, nulla è sacro. Nella sacralità, nulla è mondano”. Questa è la posizione del mistico, ed è per questo che quando facciamo amicizia con il paradosso, stringiamo un amico per la vita.

    (immagine da Freepik)

  • Il senso di meraviglia di un mistico

    Il senso di meraviglia di un mistico

    di Joan Parisi Wilcox; traduzione Gianmichele Ferrero – Post corrente: 22 settembre 2025

    Cos’è una sensibilità mistica? Una delle capacità fondamentali è percepire e sentire il sacro nel quotidiano, trovare la gioia e persino il miracoloso nel quotidiano. Per il resto dell’anno, esplorerò come possiamo coltivare diverse sensibilità mistiche, a partire dal semplice e profondo atto di meraviglia. Come scrive Emily Dickinson, “Di’ tutta la verità, ma dilla obliquamente – / Il successo nel circuito è una menzogna”. Le sue parole ci ricordano che la meraviglia, come la verità, spesso giunge alla consapevolezza in modo sottile e obliquo. Come dice della verità, la meraviglia potrebbe “abbagliarci gradualmente”. Mentre la meraviglia può colpire in modo spontaneo, più spesso è una sensibilità che scegliamo attivamente di sviluppare.

    La parola “meraviglia” ha due forme e significati fondamentali. Come verbo, significa riflettere, speculare, essere curiosi. Come sostantivo, significa essere stupiti o sorprenderci di qualcosa. Molti di noi intraprendono le loro ricerche mistiche perché sono curiosi di aspetti del mondo che esulano dal consenso o dalla realtà scientifica. Desideriamo sperimentare il soprannaturale, assistere all’insolito, toccare o essere toccati dal magico. Quindi, da dove iniziamo? Proprio da dove siamo. Come consigliava il poeta E.B. White, la chiave è “essere sempre alla ricerca della presenza della meraviglia”. È un buon consiglio. Ed è confermato da generazioni di custodi di saggezza provenienti da diverse culture e tradizioni spirituali, che ci dicono che la meraviglia inizia quando la nostra attenzione e consapevolezza sono focalizzate sul qui e ora, in particolare sulle banalità della vita.

    Quanto spesso notiamo veramente il mondo che ci circonda? La poesia più famosa di Williams Carlos Williams è forse “La carriola rossa”, che, sebbene ricca di significati, ci chiede semplicemente di notare l’esistenza, l’essere di ciò che abbiamo di fronte. In questo caso si tratta di una carriola usata, abbandonata in un cortile sotto la pioggia: “Tanto dipende / dalla / carriola rossa / lustrata dall’acqua / della pioggia/ accanto alle bianche / galline”. Invece di ignorare la familiare carriola, se la portiamo alla consapevolezza, ne apprezziamo la centralità nell’armonia dell’universo come fattoria. Dal modo in cui Williams interrompe deliberatamente i versi di questa poesia, ci viene anche chiesto di notare la pioggia stessa e le galline, cose che normalmente non catturano la nostra attenzione ma che possiedono una loro meraviglia.

    Quanto trascuriamo nella nostra vita quotidiana! L’erbaccia che germoglia nella fessura del cemento non è forse una testimonianza della ferocia e della fecondità della vita? L’amaca appesa tra gli alberi non è forse la custode di dolci ricordi di giornate pigre e sogni ad occhi aperti? Quando prestiamo attenzione, non tutto ciò che percepiamo è piacevole, ma può comunque essere profondo. Il cassonetto stracolmo di sacchi della spazzatura e scarti domestici non è forse un contenitore del nostro rapporto casuale e persino sconsiderato con l’abbondanza, dei nostri appetiti voraci, del nostro distacco dalla frugalità?

    Quando mi è venuta in mente l’immagine del cassonetto, l’ho scartata quasi subito, perché, in fondo, come può la spazzatura suscitare un senso di meraviglia? Poi ho scoperto la monumentale poesia di A.R. Ammons, “Garbage”. Mi ha rimesso in riga! Scrive: “… l’uomo del bulldozer raccoglie una bottiglia rossa che / diventa viola e verde alla luce e versa / qualche goccia di vino stantio, e le vespe gialle / ronzano nella bottiglia, cantando ubriaco, il canto / nemmeno perplesso quando lancia la bottiglia / giù per i pendii, l’aria immobile che vola / nella bottiglia anche se la bottiglia / si tuffa attraverso / l’aria! L’uomo del bulldozer ci pensa / e conclude che tutto è meraviglioso, cosa / dovrebbe concludere e cosa è tutto: sui / pendii profondi, si rende conto, la luce / dentro la bottiglia, nel corso delle settimane, cambierà / le vespe gialle, illese, essendo rimaste perse, / non rimarrà un vapore aromatico di vino, l’aria / che filtra dentro e fuori dal collo mentre il calore del sole sale e scende: tutto è uno, uno tutto: / alleluia: risale sul suo bulldozer / e scuotendo i suoi riccioli fa indietreggiare il bulldozer.”

    Se abbiamo gli occhi per vedere e il cuore per sentire, la meraviglia può scaturire dal rumore di fondo della natura e della vita e spaccarci. Di recente ho sperimentato l’arrivo inaspettato di tale bellezza. La scorsa primavera, ero seduta nella mia veranda protetta da zanzariere a bere il caffè del mattino, quando un singolo uccello ha cantato la bellezza, dando vita a qualcosa di meraviglioso. Ciò che di solito catturava la mia attenzione erano i campi verdi, le imponenti querce secolari che si stagliavano sui campi, il sole che sorgeva. E quando penso alla meraviglia e agli uccelli, riconosco la mia predilezione per i colibrì, i falchi e i gufi con cui condivido questa terra. Ma questo! Un canto che non avevo mai sentito prima, proveniente da un uccello a me sconosciuto. Era una meraviglia! Anche quando altri uccelli iniziarono a cantare la stessa canzone, questo uccello si distinse; era il Bocelli di questo stormo. Una semplicità, una chiarezza e una purezza a cappella: il suono più vicino all’angelico che avessi mai sentito. Sentivo di essere in presenza del sacro; di essere permeata dal sacro. Mattina dopo mattina, questa meraviglia si ripeteva: il canto di un singolo uccello, come una preghiera rivolta all’alba, alle querce giganti, al verde intenso dei campi e a me. Era un’esperienza mistica, resa ancora più profonda perché inseparabile dalla quotidianità, che si inseriva nella mia routine: io seduta sulla mia sedia in una veranda protetta da zanzariere all’alba, sorseggiando un caffè. Poi, una mattina, il nulla. All’improvviso, così com’era arrivato, questa meraviglia di canto cessò. Questo uccello e i suoi compagni se ne erano andati. Quanto mi manca! E quanto sono grata di esserne stata testimone e di esserne rimasta in qualche modo colpita. Alla fine, ho identificato l’uccello e il suo canto tramite YouTube: un passero dal collare bianco. Il loro è un richiamo piuttosto banale. Ma non da parte di questo uccello. La sua variazione era a un livello di maestria ben al di fuori della norma. Posso assicurarvi che se andate online per ascoltare il trillo del passero dal collare bianco, non troverete nulla di paragonabile alla meraviglia del canto inno di questo singolo uccello.

    Potrebbe sembrare un cliché suggerire che coltiviamo la meraviglia come sensibilità mistica apprezzando il meraviglioso nel quotidiano e, cosa ancora più importante, percependo quella meraviglia. Perché la meraviglia è più del corpo che della mente. Come dichiara la poetessa Mary Oliver in “The Plum Trees”, “… La gioia / è un assaggio prima / di qualsiasi altra cosa, e il corpo / può oziare per ore divorando / i momenti importanti. Ascolta / l’unico modo / per attirare la felicità nella tua mente è accoglierla / prima nel corpo, come piccole / prugne selvatiche”. Afferma questa verità ancora in “The Roses”, “… non c’è fine / credimi! alle invenzioni dell’estate, / alla felicità che il tuo corpo / è disposto a sopportare”.

    Molti di noi hanno perso la capacità di meravigliarsi tipica dei bambini. Quindi, da adulti, a volte è necessario che un bambino ci faccia da maestro. Ricordo una lezione che ho ricevuto mentre ero in visita da alcuni amici. Stavo disegnando con la loro figlia, che aveva diverse gravi difficoltà di sviluppo. Eravamo sdraiati sul pavimento; avevamo ognuno un enorme foglio di carta e un secchio di plastica pieno di pastelli. Quando finì il disegno, mi tirò per la manica per mostrarmelo. In alto c’era una stretta striscia orizzontale di cielo azzurro. La maggior parte del foglio era bianca, finché in basso non c’era un’altrettanto scarna striscia di erba verde e due figure stilizzate: lei e io. Stavo assimilando tutto, quindi non commentai subito. E ammetto che la mia attenzione era rivolta alla distesa bianca del foglio. Poi i nostri occhi si incontrarono e, senza darmi la possibilità di parlare, lei disse: “Non preoccuparti. Siamo più vicine al cielo di quanto tu possa pensare”. Wow! Non avrei potuto essere più sorpresa, né più umiliato, se un mago mi avesse colpito in testa!

    William Wordsworth ci ricorda l’importanza di coltivare la meraviglia tipica dei bambini (“Ode: Intimations of Immortality from Recollections of Early Childhood”): “C’era un tempo in cui prati, boschi e ruscelli, / la terra e ogni comune vista, / mi sembravano / adornati di luce celeste, / la gloria e la freschezza di un sogno”. Quando è stata l’ultima volta che vi siete sentiti così? Che le cose comuni sono foriere di gioia? Che il banale è magico, al punto che un semplice pino può addolcire il vostro corpo; un’iride bianca può abbellirvi? (Parafrasi da “Nelle Caroline” di Wallace Stevens). Quando è stata l’ultima volta che l’ambiente quotidiano e le attività della vostra vita quotidiana vi sono sembrati freschi e gloriosi?

    Quanto è facile dare per scontata la nostra vita. Ci è voluto un amico per ricordarmi che ero così impegnata che mi mancava la mia vita. E tu? Questo post del blog vuole essere una sveglia, il gentile promemoria di un’amica a prendersi una pausa da tutto il “fare” e a riconcentrarsi sull'”essere”? Perché scegliere la meraviglia, notare il meraviglioso e persino il divino nella quotidianità, significa scegliere tutto ciò che è importante.

    (Immagine Freepik)

  • Approfondimento su Rimay

    Approfondimento su Rimay

    di Joan Parisi Wilcox; traduzione Gianmichele Ferrero
    Post corrente: 19 agosto 2025

    Il quechua è una lingua orale; non ne esisteva una forma scritta fino a dopo la conquista spagnola. È una lingua ricca di espressività, soprattutto per trasmettere profondità emotive, complessità e sottigliezze. Rimay è il termine principale per “discorso”. Nelle sue varie forme significa linguaggio, voce, parola, discorso, conversazione, parlare, comunicare, esprimere e spiegare.

    All’interno della tradizione mistica, il rimay assume significati aggiuntivi. È suono sacro e suono come potere. È in relazione yanantin con yachay (conoscenza). Sono poteri diversi ma complementari che insieme si riferiscono alla nostra capacità di condividere la conoscenza e la saggezza acquisite attraverso l’esperienza di vita personale. Non sorprende che il rimay, come comunicazione, sia associato al kunka ñawi, l’occhio mistico della gola. Grazie al rimay, possiamo caricare le nostre vocalizzazioni – parole, canti, preghiere – con il nostro potere personale per elevarle oltre il mondano, verso lo spirituale. Nel contesto del rimay, spirituale non significa solo santo, sacro o riverente, ma anche pieno di forza vitale. (I significati principali della parola “spirituale” sono respiro e vita). Questa non è una forza vitale astratta, ma la nostra forza vitale personale. In parole più semplici, il rimay rivela il nostro kanay: il nostro essere. Con precisione, chiarezza e integrità, diamo voce a chi siamo come esseri umani unici che vivono vite umane uniche.

    Rimay è un potere del kay pacha: del mondo umano. Questo scambio di battute tratto dal film dark-comedy degli anni ’70 Harold e Maude potrebbe riguardare il rimay.
    Harold: “Preghi?”.
    Maude: “Preghi? No. Io comunico”.
    Harold: “Con Dio?”.
    Maude: “Con la vita”.

    Utilizzando il potere del rimay, possiamo esprimere qualsiasi cosa di noi stessi e delle nostre vite: la nostra gioia e la nostra disperazione, il nostro amore e la nostra paura, la nostra compassione e la nostra indifferenza … Farlo significa che in quel momento, attraverso i nostri sentimenti, abbiamo toccato una verità su noi stessi e abbiamo avuto il coraggio di esprimerla. In questo modo il rimay riguarda più il sé che gli altri. Se siamo proprietari del potere del rimay, intendiamo ciò che diciamo e diciamo ciò che intendiamo. La nostra parola è affidabile, tanto che manteniamo i nostri impegni e le nostre promesse. Ci assumiamo la responsabilità non solo del contenuto del nostro discorso, ma anche del suo volume e del suo tono, di come diamo enfasi, e dell’intento e dell’effetto espliciti e impliciti. Abbiamo tutti sentito cosa significa la mancanza di rimay: la denigrazione cortese, il complimento sarcastico, la rassicurazione disonesta, il giudizio ipocrita.

    Rimay, in quanto potere, ci chiede di essere comunicatori consapevoli. Autoconsapevolezza e autocontrollo ne sono il fulcro, perché a volte il nostro potere risiede in ciò che ci asteniamo dal dire. L’attore e scrittore Craig Ferguson offre un saggio consiglio quando afferma: “Chiediti queste tre cose prima di dire qualsiasi cosa. 1) C’è bisogno che questo venga detto? 2) C’è bisogno che questo venga detto da me? 3) C’è bisogno che questo venga detto da me ora?”.

    Nella sua vibrazione più elevata, il rimay come comunicazione è curativo. Victor Zea, fotografo e artista hip-hop peruviano che cerca di preservare la lingua quechua attraverso la sua musica, usa il termine hanpiq rimay, ovvero la parola che guarisce. (Hanpiq è più comunemente sillabato hampeq, che significa guaritore). Le nostre parole, naturalmente, possono sollevare gli altri. Possono essere lenitive, rigeneranti, ispiratrici. Ma come in tutto il nostro lavoro, prima di tutto ci prendiamo cura di noi stessi. Quando raccogliamo la volontà di dire la nostra verità con onestà e chiarezza, portiamo guarigione a quelle parti di noi negate o ferite che in precedenza avevamo tenuto nascoste o protette. La nostra guarigione potrebbe essere semplice (e potente) come rivendicare la nostra integrità attorno alle parole “sì” e “no”. Potrebbe essere imparare a dire “sì” a noi stessi quando per la maggior parte della nostra vita la nostra mancanza di autostima ci ha portato a dire “no”. Oppure imparare a dire “no” agli altri quando prima avevamo detto “sì” a malincuore per senso del dovere o per paura del rifiuto.

    I paqo ci dicono che, sebbene il nostro utilizzo delle pratiche andine per lo sviluppo personale sia un lavoro serio, non è solo questo. È anche puklay: intrapreso con un senso di giocosità. Questo vale anche per il rimay. Don Juan Núñez del Prado ci ricorda che “il nostro lavoro è un gioco cosmico. È un mix di munay e rimay. Munay come amore e volontà, e rimay come capacità di esprimere se stessi”. Ma, dice, “il rimay è molto più di questo: è la capacità di manifestarsi. Di esprimersi in tutte le forme, incluso esprimere e vivere il proprio destino e invitare gli altri a fare lo stesso. Tutto questo ti porta al kanay, il potere di essere te stesso. Se scopri il kanay, raggiungi l’atiy, il potere di cambiare la realtà intorno a te. Dopo esserti manifestato, puoi guidare il kawsay per influenzare [la realtà], ma non controllarla; puoi [spingere] l’energia a seguire flussi più armoniosi in direzioni più armoniose per te. E poi [puoi] giocare nel mondo dell’energia vivente”.

    Sebbene il rimay si riferisca principalmente alla comunicazione, nella tradizione mistica è il potere personale di esprimere qualsiasi nostra capacità. Il processo evolutivo spiegato da don Juan inizia con il munay, ovvero con il coltivarlo per noi stessi. Impariamo ad amarci così come siamo. Riconosciamo il nostro valore intrinseco e diventiamo padroni della nostra autostima. Esprimiamo chi siamo senza bisogno di assumere false sembianze: senza illusioni, scuse, giustificazioni o spiegazioni. Non svalutiamo né esageriamo i nostri punti di forza e i nostri doni. Riconosciamo le nostre debolezze e mancanze, ma non ci fissiamo su di esse. Quando ci accettiamo così come siamo, allora possiamo relazionarci con gli altri così come sono. Il nostro stato interiore condiziona la nostra realtà esteriore.

    Padroneggiare questa prima armonizzazione di munay e rimay ci conduce a kanay: Io sono. Mosè chiese a Dio: “Chi sei?”. Dio rispose: “Io sono colui che sono”. Kanay conferisce questo livello di chiarezza. Quando sappiamo “Questo è ciò che sono” e non abbiamo paura di esprimerci, acquisiamo il potere di vivere secondo la nostra vera natura. Il nostro Seme Inca, il deposito energetico del nostro pieno potenziale, fiorisce. Sebbene non possiamo fare a meno di essere plasmati da aspetti della vita che sono al di fuori del nostro controllo, attraverso kanay diventiamo anche plasmatori della vita. Gli andini aspirano a raggiungere “sumaq kawsay”: una vita bella, una vita felice. Sono d’accordo con Lucille Ball, che ha detto: “È un inizio fantastico, essere in grado di riconoscere ciò che ti rende felice”.

    Una volta che espandiamo la nostra comprensione di noi stessi includendo kanay, possiamo iniziare a usare un altro dei nostri poteri primari: atiy. Atiy è la nostra capacità di agire nel mondo. Attraverso kanay sappiamo chi siamo e cosa vogliamo dalla vita. Attraverso atiy iniziamo a manifestare quella vita. Il passo da atiy allo stadio finale dello sviluppo è breve: khuyay. Khuyay è la passione, la gioia di essere vivi come te stesso. E così chiudiamo il cerchio, tornando a rimay: l’espressione esuberante di noi stessi nella nostra versione unica di questo gioco cosmico chiamato vita.

    Così tanto parlare e così poco dire … Così tante parole pronunciate e così poca comunicazione … Leggi il post di Joan Parisi Wilcox nel blog Q’enti Wasi sul sito web  Liberiviandanti di questo mese. Riguarda il rimay, la parola quechua che significa discorso, parole, linguaggio, comunicazione. Eppure è molto più di questo. Joan approfondisce il significato di alcune attitudini tra loro conseguenti: rimay o la capacità di esprimere sè stessi, di manifestarsi; il kanay o il potere di essere sé stessi; l’aty o facoltà di agire nel mondo; il khuyay o la passione, la gioia di essere vivi.

    (Immagine Freepik)

  • Pachamama Raymi 2025

    Pachamama Raymi 2025

    Ciao Paqokuna.
    Siamo nel pieno del periodo del Pachamama Raymi. La festa del primo agosto è dedicata agli Esseri di Natura dell’Ayllu cioè del proprio campo energetico personale, dell’ambito familiare e della propria casa. Nell’area andina e in Perù è molto sentita. Nel calendario andino è il primo mese dell’anno – come il nostro gennaio – e il primo d’agosto è come il nostro Capodanno. Coincide anche con la data importante in Europa della festa conosciuta come Lammas, nome anglosassone, o Lughnasadh, nome gaelico, della festa dedicata al Dio Lugh, Dio solare. È la festa del raccolto.

    Il Pachamama Raymi non fissata in modo esclusivo il primo d’agosto ma si estende su tutto il mese considerato il mese sacro della Pachamama. L’enfasi dei rituali è posta tra l’1 e il 15 d’agosto. In questo periodo è consigliato fare le offerte/despacho.
    Il periodo è considerato un portale sacro di ricettività della Pachamama. Anche in altri momenti dell’anno si fanno offerte e pratiche con la Madre Terra ma in questo lei è (e gli Esseri di Natura) molto più sveglia. Quindi queste offerte hanno valore, potere, effetto maggiore e si riflettono su tutto il resto dell’anno.

    Il Pachamama Raymi è il momento giusto per riflettere e meditare, per fare un inventario di quanto abbiamo ricevuto dalla Pachamama, dagli apu e dalle ñusta, e cosa abbiamo realizzato durante l’anno precedente – dal primo agosto 2024 al primo agosto 2025 – e per ricambiarlo con gratitudine e reciprocità (ayni). Ringraziamo Madre Terra per quanto abbiamo maturato ed chiediamo anche la benedizione e il sostegno per quanto avverrà nel ciclo seguente.
    La gratitudine apre lo spazio per far fluire l’ayni. Ringraziando, restituiamo sami, energia, amore alla vita e quindi agli Esseri Spirituali, all’Universo vivente che ci hanno donato la vita. Di conseguenza, liberiamo spazio per continuare a ricevere, per mantenere fluido e costante il flusso di abbondanza e reciprocità che nutre la salute, la buona energia vitale e ci permette di ricevere ulteriori doni.

    Tradizionalmente, si è soliti fare offerte alla Pachamama con un despacho da soli o in gruppo oppure semplicemente con un kintu di foglie di alloro e fiori da donare alla Madre Terra o mettere sul proprio altare domestico.
    Chi è capace di farlo può comporre un despacho (hawariska) da offrire nel fuoco. Quello più adatto può essere quello mandalico circolare, tipico per la Pachamama, con 12 kintu da 3 foglie – oppure meglio da 4 foglie, che rappresenta e impersona la Pachamama nella complessità, interezza, totalità. Gli elementi del despacho da aggiungere sono sempre maschili a destra e femminili a sinistra per esprimere tutti gli aspetti phaña e lloque della Pachamama. Per chi lo conosce, può fare un despacho Tawantin.

    Chi non sa o non può fare il despacho o non lo può bruciare, può offrire un semplice di kintu con vino rosso, fiori gialli, coriandoli gialli, incenso, erbe (salvia, alloro), copal o altre resine. Può scavare una buca in un luogo appropriato (vasi, giardino, aiuola, parco) dove mettere i kintu con i fiori e versare nella buca abbondante vino rosso; infine, lo prega rivolgendo le mani e lo ricopre con la terra.

    Tradizionalmente si usa challare con vino rosso ovvero spargere gocce con le dita e stendere fiori gialli sul pavimento di casa. La benedizione può essere completata bruciando in casa, incenso naturale per portare dentro l’energia di ritorno dell’offerta e se il despacho è stato bruciato fuori.

    Buon Pachamama Raymi, danzando nella melodia cosmica dell’ayni.
    Gianmichele Ferrero

    Hello Paqokuna.
    We are in the midst of the Pachamama Raymi season. The August 1st celebration is dedicated to the Nature Beings of the Ayllu —those of one’s personal energetic domain, family, and home. It is deeply felt in the Andean region and in Peru. In the Andean calendar, it is the first month of the year—like our January—and August 1st is like our New Year’s Day. It also coincides with the important date in Europe of the celebration known as Lammas, the Anglo-Saxon name, or Lughnasadh, the Gaelic name, the celebration dedicated to the God Lugh, the solar god. It is the harvest festival.

    Pachamama Raymi is not exclusively celebrated on August 1st but extends throughout the entire month, considered the sacred month of Pachamama. The emphasis of the rituals is between August 1st and 15th. It is recommended to make offerings/despachos during this period.
    This period is considered a sacred portal of receptivity for Pachamama. At other times of the year, offerings and practices are made to Mother Earth, but during this time, she (and the Beings of Nature) are much more awake. Therefore, these offerings have greater value, power, and impact, and are reflected throughout the rest of the year.

    Pachamama Raymi is the right time to reflect and meditate, to take stock of what we have received from Pachamama, the apu, and the ñusta, and what we have accomplished during the previous year—from August 1, 2024, to August 1, 2025—and to reciprocate with gratitude and reciprocity (ayni). Thank Mother Earth for what we have achieved and also ask for blessings and support for what will happen in the following cycle.
    Gratitude opens the space for the ayni to flow. By giving thanks, we return sami, energy, and love to life and therefore to the Nature Beings, to the living Universe, who gave us life. Consequently, we free up space to continue receiving, to maintain a fluid and constant flow of abundance and reciprocity that nourish our health, good vital energy, and allows us to receive further gifts.

    Traditionally, it is customary to make offerings to Pachamama with a despacho, alone or in a group, or simply with a kintu of bay leaves and flowers to donate to Mother Earth or place on one’s home altar.
    Those who are skilled at it can compose a despacho (hawariska) to offer into the fire. The most suitable one is the circular mandala, typical of Pachamama, with 12 kintu of three leaves—or better four leaves, which represents and embodies Pachamama in its complexity, wholeness, and totality. The elements of the despacho to be added are always masculine on the right and feminine on the left to express all the phaña and lloque aspects of Pachamama. For those who know how to do so, a Tawantin despacho can be made.

    Those who don’t know how to make a despacho, or who can’t burn it, can offer a simple kintu with red wine, yellow flowers, yellow confetti, incense, herbs (sage, laurel), copal, or other resins. Dig a hole in an appropriate location (pots, garden, flowerbed, park), place the kintu with the flowers and pour abundant red wine into the hole. Finally, pray over it, turning the hands and covering it with earth.

    Traditionally, it’s customary to sprinkle drops of red wine with the fingers, and spread yellow flowers on the floor of the house. The blessing can be completed by burning natural incense at home to bring in the returning energy of the offering, and if the despacho was burned outside.

    Happy Pachamama Raymi, dancing to the cosmic melody of the ayni.
    Gianmichele Ferrero

  • Tukuy Hampeq: il guaritore infallibile

    Tukuy Hampeq: il guaritore infallibile

    di Joan Parisi Wilcox; traduzione Gianmichele Ferrero – Post corrente: 19 luglio 2025

    La guarigione è un mistero. Non comprendiamo il corpo umano, la mente, le emozioni o lo spirito. Eppure, senza dubbio, ognuno di essi gioca un ruolo nella guarigione. Non comprendiamo la natura dei flussi di energia fisica o metafisica, eppure ognuno di essi probabilmente gioca un ruolo nella guarigione. Qualunque cosa sia la guarigione, possiamo fare una distinzione tra essa e la cura. Guarire spesso significa trovare la pace mentale con “ciò che è”, che può spaziare da limitazioni fisiche o emotive alla morte imminente. Guarire il più delle volte significa trasformare un corpo malato in un corpo libero da malattie. Eppure, queste distinzioni hanno poca importanza, perché non comprendiamo appieno né la guarigione né la cura.

    Nella tradizione mistica andina, i paqo sviluppano una serie di capacità mistiche e assistono le loro comunità in vari modi. Al vertice della gerarchia dei paqo si trovano i mesayoq contralto di quarto livello, e uno dei loro ruoli più importanti è quello di hampeq (guaritori). Le profezie andine ci dicono che i tempi sono maturi per l’emergere di un nuovo livello di maestria nella guarigione – quello dell’Inka Mallku, o paqo di quinto livello. Per quanto ne sappiamo, nessuno è ancora emerso. E lo sapremmo – perché un paqo di quinto livello è un tukuy hampeq, un guaritore infallibile. La straordinaria capacità dei tukuy hampeq è la guarigione infallibile. Con un tocco della loro mano, curano ogni malattia, disturbo e condizione ogni volta, senza fallo.

    I paqo non possono addestrarsi per diventare tukuy hampeq. Si dice che il karpay al quinto livello sia una trasmissione di energia direttamente da Taytanchis (Dio). I paqo diventano candidati per questo karpay quando diventano tukuymunaynioq, maestri assoluti del munay, definito come amore sotto la nostra volontà. Questo tipo di amore non è un sentimento o un’emozione – è un potere. E il munay è il potere primario per la guarigione.

    Sebbene i guaritori di quinto livello abbiano capacità altamente sviluppate di amore, e quindi di guarigione, la tradizione ci dice che la guarigione non proviene dai paqo, ma attraverso di essi. I Tukuy hampeq canalizzano i poteri di Mama Allpa (Madre Terra), Pachamama (la Madre Cosmica), Pachatayta (Padre Cosmo) e Taytanchis (il Dio metafisico). Canalizzano le energie combinate dei quattro grandi Creatori per attivare la capacità di autoguarigione della persona malata. Almeno questo è ciò che suggerisce la tradizione, sebbene non abbiamo idea di quali siano i meccanismi effettivi di guarigione.

    I Tukuy hampeq sembrerebbero compiere miracoli. La medicina convenzionale chiamerebbe queste guarigioni “remissioni spontanee” della malattia o, forse più cinicamente, effetto placebo. Una caratterizzazione meno dispregiativa potrebbe essere “anomala”. Ma questi termini sono almeno per metà vuoti, perché nessuno sa ancora cosa causi una remissione spontanea o quali processi psicobiologici siano in gioco nella risposta al placebo. Eppure, accadono. Lo stesso vale per la guarigione energetica o spirituale: sebbene esistano numerosi studi scientifici rigorosi e pacchi di prove aneddotiche a sostegno della realtà di entrambe, nessuno sa come funzionino.

    Ho dedicato del tempo a riflettere sulla guarigione di quinto livello e, sebbene non ne abbia esperienza e ne conosca solo una minima parte, ho alcune considerazioni. Da quel poco che sappiamo sui tukuy hampeq, credo sia corretto affermare che stiano eseguendo un mast’ay: con un semplice tocco stanno riordinando o ristrutturando il corpo-mente della persona. (Più precisamente, canalizzano il potere dei quattro poteri del Creatore menzionati sopra per riorganizzare il corpo.) Quando mi chiedo cosa venga “ristrutturato”, penso alla descrizione del lavoro psicologico ombra fatta dall’analista junghiano Robert Johnson: non c’è niente di sbagliato in noi, niente da sistemare, c’è solo la cosa giusta nel posto sbagliato. Forse con il loro tocco, i tukuy hampeq avviano un mast’ay tale che tutto nel corpo sia di nuovo al posto “giusto” e funzioni nel modo “giusto”. Anche se non sappiamo come possano innescare il mast’ay, sembra ragionevole che cellule, organi o processi biologici disfunzionali riacquistino in qualche modo il loro normale funzionamento naturale.

    Propendo per questa visione perché ho avuto le mie esperienze, per quanto poche, nell’eseguire guarigioni energetiche. In un caso, dopo sole due sedute si è ottenuto un risultato sorprendente (per me, per la persona su cui stavo lavorando e per il suo team di medici). Anche alcuni dei miei studenti hanno condiviso gli effetti impressionanti, e in alcuni casi sorprendenti, delle loro sedute. Dai loro resoconti e dalle mie esperienze personali, sono giunto a credere, come molti guaritori energetici, che un modo altamente efficace di lavorare con le malattie di origine corporea non sia cercare di sradicare una malattia o sradicare le “cose sbagliate” (come uccidere le cellule tumorali). Al contrario, robuste risposte di guarigione sembrano verificarsi più frequentemente quando raduniamo le forze vitali di tutto ciò che è “giusto” nel corpo. Su un’onda di munay, trasmettiamo energia e intenzioni a tutti gli aspetti ben funzionanti del corpo, sovraccaricandoli per inviare qualsiasi segnale (biochimico, bioelettrico, ionico e così via) che aiuti le cellule, gli organi o qualsiasi altra cosa vicina disfunzionale a “ricordare” come tornare alla normalità. Non solo onoriamo, ma lavoriamo con l’intelligenza del corpo. Il mast’ay è il ripristino della comunità, della naturale interdipendenza di cellule, processi, segnali e così via. La guarigione avviene quando gli elementi devianti che si sono separati dalla comunità vi ritornano. La parola “guarigione”, dopotutto, deriva da una radice inglese antica che significa “rendere intero”.

    La scienza sta lentamente convalidando la forza curativa dell’amore e raccogliendo capisaldinconvincenti per gli approcci di guarigione energetica che enfatizzano un ritorno alla completezza. In uno studio di laboratorio che ha utilizzato diverse intenzioni di guarigione su tre linee di cellule tumorali in coltura, l’intenzione che ha maggiormente ridotto la loro crescita (del 39%) è stata “Ritorno all’ordine naturale e all’armonia della linea cellulare normale” (p. 268, Spontaneous Evolution, Bruce H. Lipton e Steve Bhaerman). L’aggiunta di immagini visive all’intenzione ha raddoppiato l’effetto. Molti altri studi di laboratorio, inclusi quelli che hanno coinvolto William Bengston, autore di The Energy Cure, hanno dimostrato gli stessi robusti effetti di quelle che vengono variamente chiamate intenzioni di guarigione di completezza, coerenza o risonanza.

    Grazie alla sua esperienza personale con la guarigione manuale, Bengston crede che non stiamo lavorando direttamente con le energie del corpo fisico, ma all’interno di un campo di coscienza unificante: un campo energetico-informazionale che chiama “Fonte”. Come afferma con tanta abilità e concisione: “La coscienza non ha plurale”. Ammette umilmente di non sapere cosa significhi la sua affermazione sulla Fonte. Né sa cosa sia la Fonte. Ciononostante, è sicuro di stare semplicemente canalizzando l’energia della Fonte. Usa una metafora sul viaggio attraverso questo campo unificante per spiegare cosa pensa possa accadere durante una guarigione energetica. La sua speculazione si innesta nell’analogia di Robert Johnson sui problemi psicologici che sorgono perché le cose giuste si trovano nel posto sbagliato. Bengston dice: “Quando ti curo, quella che considero la mia coscienza e quella che tu consideri la tua potrebbero viaggiare insieme attraverso esistenze concomitanti. Se la mia è una viaggiatrice esperta, forse posso spingere la tua in un luogo dove il tuo corpo preferirebbe essere… Potresti pensare che io stia cambiando qualcosa di fisico in te come farebbe un medico, ma forse guarisci perché ti porto nel posto giusto …”

    Ricevetti un messaggio simile dal paqo Q’ero don Juan Paquar Flores, sebbene il contesto non avesse nulla a che fare con la guarigione. Nel 1996, mentre conducevo le interviste per il mio libro sui paqo, don Juan mi prese da parte per regalarmi una khuya (una pietra o un oggetto caricato di una particolare intenzione). Mi spiegò come usarla e poi mi fornì un’invocazione o preghiera da recitare durante l’uso. L’invocazione mi ricorda l’idea di Bengston della guarigione come viaggio attraverso lo spazio-tempo (o la coscienza). L’invocazione di don Juan fu tradotta dal quechua all’inglese come “Possa il cammino che percorro essere percorso; possano le parole che dico essere pronunciate; possa il desiderio che esprimo essere desiderato: che il cammino che faccio essere realizzato”.

    Sia la forma di viaggio di Bengston che la preghiera di don Juan sono permeate da due fondamentali sensibilità andine. In primo luogo, che spazio e tempo siano energeticamente intrecciati (o addirittura uno stato singolare all’interno della coscienza). In secondo luogo, che la coscienza (intenzione) influenzi o addirittura diriga l’energia. Pur canalizzando i quattro poteri del Creatore, forse i tukuy hampeq hanno potere sul tempo stesso (o sull’illusione del tempo). Attraverso il loro tocco, il passaggio dalla malattia al benessere avviene in un istante. Con un tocco, “così è”.

    Attualmente, ci sono guaritori in tutto il mondo che occasionalmente mostrano capacità di quinto livello. I loro rari successi sono la prova che è possibile guarire con un semplice tocco. William James, autore di “The Varieties of Religious Experience“, ha affrontato il dubbio di coloro che si affidano al ragionamento induttivo (pensate agli scienziati!) per liquidare queste esperienze: tutti i cigni che abbiamo mai visto sono bianchi, quindi possiamo presumere che tutti i cigni ovunque siano bianchi – finché non vediamo il nostro primo cigno nero. Eppure, finiamo dove abbiamo iniziato. Non sappiamo cosa sia la guarigione energetica. Non possiamo fare altro che speculare sui meccanismi della guarigione infallibile. Tuttavia, la profezia andina ci dice che l’emergere di capacità di guarigione di quinto livello è imminente, quindi se riponiamo la nostra fede in quella profezia potremmo presto scoprirlo.

    (immagine Freepik)

  • Nuovo sito web 2025

    Nuovo sito web 2025

    NUOVO SITO WEB 2025

    Sono felice di darvi il benvenuto nel nuovo sito web di Liberi Viandanti.
    Da più di 23 anni l’indirizzo web è sempre lo stesso. Purtroppo, la piattaforma che dal 2021 usavamo, aveva iniziato ad evidenziare errori per i caratteri speciali e una scarsa fruibilità video. Abbiamo provveduto ad un ampio aggiornamento e allo stesso tempo pensato un nuovo aspetto stilistico, un cambio di alcune immagini e una revisione di alcuni testi. È stato un lavoro impegnativo ma adesso troverete il sito più arioso e chiaro, meglio consultabile da smartphone, computer e tablet.
    Le diverse pagine rimangono le stesse ma la pagina dei blog è stata rivista. Troverete gli articoli miei e di Joan Parisi Wilcox in anteprima nella Home e evidenziati in ordine cronologico nella pagina Blog & News.
    Purtroppo, i link che avevo usato per indirizzarvi ai post dentro al precedente sito non saranno più validi per il nuovo sito. Vi consiglio, perciò, di farvi un giro per prendere confidenza con la mappa. In ogni caso potete chiedermi se qualcosa vi sta sfuggendo.

    Nulla invece cambia per il canale YouTube dove continuate a trovare tutti i video precedenti dei karpay, pellegrinaggi, viaggi, semimari e le registrazioni delle pratiche delle Lune piene e nuove e altre meditazioni.

    Rimane la stessa anche la pagina FaceBook.

    Continuiamo a tenerci in contatto.
    Gioiosa danza nell’armonia dell’ayni.
    Gianmichele Ferrero

    RIFERIMENTI WEB LIBERI VIANDANTI
    Sito Web: www.liberiviandanti.it
    Facebook: www.facebook.com/groups/liberiviandanti
    YouTube: http://youtube.com/@liberiviandanti

  • Essere un Chakaruna

    Essere un Chakaruna

    ESSERE UN CHAKARUNA

    di Joan Parisi Wilcox; traduzione Gianmichele Ferrero – Post corrente: 20 giugno 2025

    Chakaruna significa “persona ponte”, e il suo significato è evidente: colei che discerne le connessioni e unisce o armonizza due cose, gruppi, tradizioni, idee e simili. Tendiamo a pensare a questo come a una dinamica energetica che si verifica nel mondo esterno, e certamente lo è; tuttavia, la dinamica energetica fondamentale inizia dentro di noi.

    Il primo ponte che costruiamo è dentro di noi. La dinamica energetica fondamentale della tradizione andina è ayni: reciprocità. Costruire ponti è certamente uno sforzo reciproco. Serve a poco stabilire una connessione se la parte con cui ci si è connessi non ha il desiderio o la capacità di ricontattarci e instaurare una relazione. La reciprocità, o ayni, è quindi al centro di ogni tipo di impegno chakaruna.

    L’anyi opera a molti livelli: socialmente, tra persone e comunità; eticamente, tra noi e gli altri; ed energeticamente, tra noi, gli altri, la natura, gli esseri spirituali e, in definitiva, l’universo vivente. Siamo costantemente in uno scambio energetico, sebbene la maggior parte dei nostri scambi energetici sia guidata dai nostri bisogni, desideri, credenze e così via inconsci. Portare consapevolezza al nostro ayni è un lavoro personale essenziale, e non possiamo nemmeno iniziare a farlo finché non comprendiamo che ayni è un tawantin (composto da quattro fattori): intenzione, intenzione attuata, consapevolezza che ci sarà un ritorno reciproco (feedback) dall’altra parte o dall’universo vivente, e quindi vedere e comprendere quel feedback quando arriva, in modo da sapere se continuare con la nostra azione intenzionale o se dobbiamo apportare delle modifiche.

    Inoltre, intendiamo l’ayni come uno scambio in cui entrambe le parti cercano e ricevono appagamento. La preoccupazione comune è sempre che ciascuna parte coinvolta nello scambio ne tragga beneficio. Quindi, l’ayni non è un qualsiasi tipo di scambio, ma uno scambio di benessere reciproco. Molte persone nuove alla tradizione andina parlano dell’ayni in modo generalizzato, pensando che si tratti di un qualsiasi tipo di scambio energetico. Ma non lo è: è qualcosa di speciale, e non è così facile raggiungere il vero ayni. In effetti, ci sono molti altri tipi di scambi che possiamo realizzare che non raggiungono il livello dell’ayni. Un esempio è il chhalay. Il chhalay è una transazione. È uno scambio privo di sentimento (munay), e quindi tende a basarsi principalmente sull’interesse personale. Se vedi un maglione nella vetrina di un negozio, potresti entrare e acquistarlo. C’è un tacito accordo per cui pagherai il prezzo stabilito dal venditore. Paghi quel prezzo, porti a casa il maglione e il negoziante intasca i tuoi soldi. Questo è chhalay.

    Userò me stesso come esempio di una differenza più sfumata tra chhalay e ayni. Insegno online e stabilisco il prezzo di un corso. Gli studenti che si iscrivono accettano di pagare la quota del corso. Questa è una transazione chhalay tra noi. L’ayni entra in gioco quando inizio a offrire il mio servizio. il mio ayni è il modo in cui insegno quel corso. Si esprime nel modo in cui mi dedico ai miei studenti e alle loro esigenze, nella mia preparazione e partecipazione quando insegno, nel mio impegno a fornire un’esperienza di apprendimento eccellente ai miei studenti. L’altra metà dello scambio di ayni proviene da ogni studente: o ricambiano in ayni o no (il loro entusiasmo per l’apprendimento, il loro coinvolgimento con me e gli altri studenti, e così via). Al contrario, se sono un robot perché faccio questo da molto tempo, se mantengo la distanza emotiva dai miei studenti, se interagisco raramente con loro se non in classe, e così via, questo non è ayni da parte mia. È chhalay.

    Mi sto concentrando così tanto sull’ayni perché è ampiamente frainteso e troppo spesso non praticato. Eppure è al centro della tradizione andina e certamente al centro dell’essere un chakaruna. Ayni è il modo in cui portiamo la qualità di noi stessi nel mondo. Dipende da molti fattori, non ultimi i nostri valori personali e l’acutezza della nostra autoconsapevolezza. Quando conosciamo noi stessi e ci accettiamo (con compassione anche per i nostri difetti e le nostre carenze caratteriali), abbiamo la capacità di vedere gli altri per quello che sono e di accettarli esattamente per quello che sono. Il ponte interiore del chakaruna ci aiuta a non stare al di sopra degli altri, ma a essere faccia a faccia con loro. È così che superiamo le ostinate dinamiche psicologiche della percezione delle differenze e, invece, coltiviamo il riconoscimento della somiglianza e della fratellanza. I chakaruna vedono se stessi negli altri e gli altri in sé stessi. Come dice il proverbio: come dentro, così fuori.

    Ayni è anche il cuore dell’essere un chakaruna perché coinvolge la nostra volontà, ma non la nostra caparbietà. Dobbiamo applicare la volontà per mettere in pratica la nostra intenzione, ma non dobbiamo imporre volontariamente le nostre intenzioni, convinzioni, desideri, opinioni, giudizi e avversioni agli altri. Troppo spesso costruire ponti è imposizione o, più raramente ma non inaudito, è un travestimento per la coercizione. Ci diciamo di fare del bene, quando in realtà potremmo cercare (consciamente o inconsciamente) di imporre la nostra volontà agli altri. È raro che una persona non abbia preferenze per una parte o per l’altra, che non proietti su una parte o sull’altra, o che non giudichi una parte più degna, giusta, buona, meritevole (qualunque cosa) dell’altra.

    Nel corso degli anni, Don Juan Núñez del Prado ha consigliato a me e ad altri che il nostro lavoro come “paqos” consiste nell’assistere coloro che riteniamo possano aver bisogno del nostro aiuto (di solito un’assistenza energica, se abbiamo il potere personale di fornirla), ma non andiamo in giro a ficcare il naso negli affari altrui. Non è affar nostro cercare di costruire un ponte senza il consenso esplicito o implicito di entrambe le parti. Non è affar nostro costruire un ponte perché lo riteniamo “la cosa migliore” per entrambe le parti.

    Quindi, qual è il nostro compito come chakaruna? Riguarda prima di tutto il nostro stato energetico: costruire un ponte interiore da cui possiamo vedere entrambe le sponde (entrambe le parti) senza favoritismi o pregiudizi. Significa superare qualsiasi impulso a riparare o guarire una o entrambe le parti. Un chakaruna non fa nulla agli altri, ma agisce per conto degli altri. In questa prospettiva, il chakaruna non è colui che costruisce il ponte esteriore; il chakaruna mantiene lo spazio interiore in modo che le due parti siano in grado di immaginare un ponte tra loro e iniziare a costruirlo loro stesse: l’una verso l’altra finché non si incontrano nel mezzo e vi si posano insieme.

    La mia amica, ex studentessa e ora collega Katy O’Leary Bagai ha condiviso la traduzione di una discussione che ha avuto con il paqo don Claudio Quispe Samata che spiega splendidamente questo approccio all’essere un chakaruna. La sua raccolta di appunti delle traduzioni include la seguente prospettiva, che fornisce la conclusione perfetta a questa discussione: un chakaruna sceglie di vivere nell’intersezione tra spirito e materia, mantenendo silenziosamente la coerenza tra la tensione che spesso viene creata dagli esseri umani in quell’intersezione. Un chakaruna ascolta gli allineamenti e coglie l’invito a portare coesione in ogni tensione percepita. Un chakaruna non rifiuta l’azione, ma comprende che la saggezza risiede nel sapere quando agire e quando trattenere. Il chakaruna, nel profondo, è un veicolo di potenziale. Diventa un canale per il mondo, ricordando come cambiare se stesso.

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